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static

I Planet Funk guardano l’infinito da una finestra che dà sul mare di Posillipo, lo stesso narrato da Caruso e da Lucio Dalla. Ma quella era un’altra storia e, forse, un altro luogo.

Il quartetto abita invece uno spazio indefinibile, lontano dagli 'ismi' e dalle facili categorizzazioni. Fisicamente il loro quartiere generale è in uno studio a metà strada tra il buen retiro, una factory e un laboratorio creativo. Qui nascono idee, suggestioni, strategie e canzoni di un gruppo di esploratori della musica. Tra queste mura è stato progettato in buona parte “Static”, il terzo album del quartetto.

Marco Baroni, Domenico GG Canu, Sergio Della Monica e Alex Neri non fanno parte dell’usuale panorama italiano. Sono un caso, una variabile cosciente, arrabbiata e visionaria della scena europea. Amano il rischio, i cambiamenti, le novità. Chi ha amato i primi due episodi della saga del “pianeta funk” resterà piacevolmente sorpreso dall’ennesimo cambio di direzione. Il neo-illuminismo di “The Illogical consequence” ha lasciato il posto a un progetto minimale, scarno, votato alla sottrazione e alle emozioni basiche.

“Static” è carne su carne, sangue, sudore e anche lacrime; trasuda emozione, riporta indietro l’orologio del tempo mescolando le carte tra psichedelica ed elettronica, rock e funk. Potrete leggervi reminiscenze di Rolling Stones e Depeche Mode, Talking Heads e Pink Floyd. Ma è un disco chiaramente targato Planet Funk. “Un album controcorrente?” dicono all’unisono. “Forse stiamo solo anticipando una tendenza. Ed è sempre molto rischioso. Abbiamo cercato la semplicità, anche se in modo esasperato. Sentivamo l’esigenza di tornare agli strumenti musicali classici e di farli convivere con la tecnologia. Abbiamo inseguito a lungo le atmosfere di questo disco e alla fine ci siamo trovati a produrlo e a suonarlo contemporaneamente”.

La parola “Static” ha una doppia accezione nel vocabolario Planet Funk. Si può tradurre come staticità, assenza di moto. Ma significa anche elettricità statica; è il rumore causato dall’elettricità nell’aria. “La corrente elettrostatica - aggiungono i Planet Funk - a volte fa scintille. In musica siamo sempre stati affascinati dai contrasti. Questo titolo è solo apparentemente sopra le righe. In giro sentiamo troppa staticità. Abbiamo desiderato di fare un salto nella leggerezza. ‘Static’ rappresenta la nostra via d’uscita dall’ovvietà”.



I primi segnali di cambiamento sono nella scelta del cantante. Non c’è più John Graham alla voce, ma Luke Allen, ennesimo ingresso in un collettivo aperto che stavolta si è avvalso anche dell’apporto di Hugh Harris per i testi (rigorosamente in inglese).

“It’s your time”, il brano con cui si apre l’album, non è solo il primo singolo del progetto, ma il manifesto fisico del nuovo corso. Via gli intellettualismi del disco precedente, basso e batteria in primo piano, una voce ostinata e convincente annuncia che è arrivato “il nostro tempo”. E’ una tempesta di sensi e di elettronica, filtrata attraversa la sensibilità umana. E’ il segno che le buone vibrazioni non hanno coordinate specifiche o prefissate, non abitano in un luogo stabilito dall’industria e dalle ultime indagini di mercato. I Planet Funk non credono più alle formule, ai comandamenti dei mercanti pubblicitari.

Il nuovo viaggio inizia così, con una parabola sempre diversa. “Magic number” è la logica conseguenza di “It’s your time”: ancora note fisiche, strappate alle macchine e alle pelli degli strumenti. Qualcuno riconoscerà tra le pieghe del discorso i rumori tanto cari al Brian Eno di “Remain in Light” dei Talking Heads. E’ l’eterno ritorno che il rock ci ha insegnato ad apprezzare. Suoni e sensazioni che si ripetono nel tempo. Magari cambiano d’abito o si adeguano a una scena differente. Ma sono la rappresentazione della nostra eterna giovinezza, un marchio indelebile fatto di battiti, aromi, passioni.

Il senso per il ritmo di "Static" è la sua forza, a tratti irresistibile, a tratti trascinante, a tratti ipnotica. Non c'è rottura di carico nelle dieci tracce, un itinerario fisico nei suoni del nostro tempo. Anche quando Planet Funk accenna alla ballata elettronica ("If we try"), gioca con la muzak elettronica ("Static"), cita l'era dei Depeche Mode ("We Turn") e i dettami del linguaggio digitale ("Running through my head" e "Tears") si ha la certezza di una identità chiara e forte.Il gran finale con Jovanotti in "Big Fish" lascia le porte aperte ad altri cambiamenti. Il blues ipertecnologico che Lorenzo lancia "in the deep deep water" rientra nella regola numero uno di Planet Funk. Mai nello stesso posto, mai allo stesso modo. Unici.

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